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Arcidiocesi di Otranto ...
“Camminare nella fede da adulti e con gli adulti”
Benvenuti a tutti carissimi.
Diamo inizio al nostro Convegno Diocesano in cui vogliamo tematizzare il rapporto dell’adulto con la fede, puntare gli occhi sull’adulto-cristiano e sul cristiano-adulto, e soprattutto riscoprire la fisionomia della sua missione nella Chiesa e nel mondo.
Quello di quest’anno non è un tema che si aggiunge ai precedenti, con qualche encomiabile ma debole tentativo di amalgama con il cammino già fatto. Siamo giunti piuttosto in un momento in cui ci si presenta davanti proprio la chiave di volta dell’azione pastorale della nostra diocesi. Senza adulti e adulti nella fede, la comunità ecclesiale è estremamente impoverita e rischia sempre più di essere confinata in una sfera marginale dell’attuale assetto sociale e culturale. Senza adulti essa c’è, ma è come se non ci fosse. C’è, ma non incide. E poi, questo è il peggio, sembra che, di riflesso, il mondo si abitui ormai all’assenza della Chiesa dai vissuti quotidiani, dagli ambiti di gestione delle responsabilità sociali, dai confronti culturali, dal mondo lavorativo, dalle scelte etiche.
Qual è l’anello mancante, se accade questo? L’adulto! Sì, proprio l’adulto.
E poi, ancora, come è possibile pensare qualsiasi percorso di catechesi, anche ben strutturato, se non è supportato da persone generose che si spendono con una matura scelta di fede? Come è possibile senza adulti veri sognare una comunità in cui ci siano «la passione per la Chiesa, lo zelo evangelico e la volontà di comunicare la propria gioia di credere» come è affermato nel nostro Progetto Pastorale? (D. NEGRO, In mezzo alle case, Salentina, Galatina 2004, p. 69). Papa Francesco ha affermato: «C’è una grande responsabilità per noi, i battezzati, annunciare Cristo, portare avanti la Chiesa, questa maternità feconda della Chiesa» (Omelia, 17 aprile 2013). In questo senso diciamo pure che solo gli “adulti nella fede” possono iniziare alla fede.
Queste provocazioni iniziali ci fanno comprendere la portata di questi due giorni, ci mettono davanti alla responsabilità di non procrastinare più i tempi di maturazione personale e comunitaria e ci fanno intuire che, anche se questo nostro stare insieme è bello e gratificante perché esprime la comunione diocesana, il percorso che si sta dischiudendo non è affatto facile.
I santi hanno sempre da insegnare e per questo vorrei consegnarvi tre straordinarie citazioni tratte da un interessante testo del Card. Angelo Comastri, L’urlo di Dio, in cui l’autore dà voce ad alcuni testimoni, tra cui papa Giovanni XXIII.
Di questo santo Papa che volle il Concilio Vaticano II, Comastri riporta uno stralcio del discorso tenuto il 21 novembre 1962 in cui racconta un episodio della sua infanzia, un passaggio di una lettera che a cinquant’anni scrisse ai suoi genitori e uno squarcio del suo diario.
L’episodio della sua infanzia: «Era il 21 novembre 1885 e tutti andavano al Santuario della Madonna delle Càneve. Anche Marianna Roncalli (la mamma del Papa) si avvia con i suoi figli […]. Quando giunsi davanti alla chiesetta, non riuscendo ad entrarvi, perché ricolma di fedeli, avevo una sola possibilità di scorgere l’effige della Madonna, attraverso una delle due finestre laterali della porta d’ingresso, piuttosto alte e con inferriata. Fu allora che la mamma mi sollevò tra le braccia dicendomi: “Guarda, Angelino, guarda la Madonna com’è bella, lo ti ho consacrato tutto a lei”».
Ecco il contenuto della lettera che scrisse a cinquant’anni: «Da quando sono uscito di casa, verso i dieci anni, ho letto molti libri e imparato molte cose che voi non potevate insegnarmi; ma quelle poche cose che ho appreso da voi sono ancora le più importanti e sorreggono e danno calore alle molte altre che appresi in seguito, in tanti e tanti anni di studio e di insegnamento».
Leggo infine il brano tratto dal suo Diario: «L’educazione che lascia tracce più profonde è sempre quella della casa. Io ho dimenticato molto di ciò che ho letto sui libri, ma ricordo ancora benissimo quello che ho appreso dai genitori e dai vecchi. Per questo non cesso di amare Sotto il Monte, e godo di tornarvi ogni anno. Ambiente semplice, ma pieno di buoni principi, di profondi ricordi, di insegnamenti preziosi» (A. COMASTRI, L’urlo di Dio. Perché non lo senti, San Paolo, Roma 2015, pp. 56-58).
La scia luminosa di questi testi di papa Giovanni XXIII ci mostra soprattutto la bellezza di un’immagine: sua madre che lo solleva fra le braccia. Mi piace pensare che anche da Papa lei continuasse idealmente a sollevare sulle braccia suo figlio, così come mi piace pensare che i nostri genitori continuano a sollevarci tra le braccia attraverso ciò che ci hanno insegnato. Per cui ognuno di noi può continuare a essere ciò che è, soprattutto grazie a loro.
L’indiscussa attualità di questi testi, inoltre, ci offre alcuni parametri di fondo da non dimenticare in questa fase assembleare.
- Adulti non ci si improvvisa né umanamente, né cristianamente. L’adultità non è mai solo e innanzitutto una questione di anagrafe.
- Andando a considerazioni di tipo più “qualitativo” e non come mera indicazione di età, possiamo dire che la condizione adulta è segnata dalla raggiunta autonomia, dall’indipendenza personale. Quando si parla di “indipendenza” ci si riferisce alla famiglia d’origine. Tale indipendenza si declina su vari piani: indipendenza economica, indipendenza abitativa, indipendenza “affettiva”, indipendenza sociale, politica, culturale e religiosa. E non mancano oggi difficoltà che ostacolano il sereno e progressivo raggiungimento dell’autonomia…
- Gli adulti hanno prima di tutto una grande e grave responsabilità: quella dell’educazione dei figli o in genere delle nuove generazioni.
- I figli, nonostante le apparenze, non sono mai distratti davanti ai messaggi dei loro genitori o degli altri adulti che li circondano… e al momento opportuno ce lo dimostrano. Ciò che imparano soprattutto informalmente, dalla vita degli adulti cioè, rimane loro impresso indelebilmente, poiché come diceva Massimo D’Azeglio: «Siamo tutti fatti di una stoffa nella quale le prime pieghe restano per sempre».
- Una comunità sarà adulta nella fede solo se ci saranno persone che sceglieranno di intraprendere il viaggio nell’adultità della fede, incarnata dai modelli biblici e dalle innumerevoli storie di santità di cui è arricchita la vita della Chiesa di tutti i tempi.
Quali prerequisiti si chiedono in fase di partenza?
Innanzitutto quello di non staccare mai lo sguardo da Cristo, «l’uomo perfetto», come in definiva la Gaudium et Spes al n. 22. È la luce del suo volto che dovrebbe riflettersi sul nostro. La nostra vocazione è quella di avere sempre in noi «gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù» (Fil 2, 5), non dobbiamo mai dimenticarlo.
L’altro prerequisito è quello di “camminare insieme”, pena il fallimento di ogni scelta spirituale e pastorale. L’adulto è tale, infatti, se vive con maturità la dimensione più intima del suo essere persona, che è quella di essere “in relazione”. Non può esistere una maturità soggettiva, gestita a proprio uso e consumo, e, di conseguenza, non può esistere un adulto se non inserito in una comunità adulta e costituita da adulti che vivono il dono e il dovere di una fraterna corresponsabilità.
All’adulto, poi, ad ogni adulto, incominciando naturalmente da me, poi vorrei lasciare due consegne: la prima quella di avere sempre lo slancio di un bambino nella relazione con gli altri e con l’Altro; la seconda è di conservare la consapevolezza, la forza e la fedeltà dell’uomo maturo. Le due consegne, apparentemente contraddittorie, sono il segreto della vita cristiana.
Altro prerequisito è che “adulto” non è sinonimo di “arrivato”. Nella fede, infatti, non è premiato chi arriva, ma sempre chi parte… come Abramo. Il traguardo poi non sarà una conquista personale ma il più grande dono di Dio. Altrimenti, anche per noi potrebbe valere il rischio bene sintetizzato dalla ben nota massima latina: «Non progredì est regredì» (il non progredire è già un regredire). Che l’adultità, allora, non significhi per alcuno di noi trovarsi su un piano inclinato, sul quale si è innescata un’inesorabile discesa fino allo spegnimento della volontà, della fede, della vita.
Leggendo a ritroso il titolo del nostro Convegno, “Camminare nella fede da adulti e con gli adulti”, risulta chiaro, infine, che per accompagnare gli adulti nel loro percorso di fede (dal titolo “… con gli adulti”) è necessario che anche noi, per primi e da subito, ci mettiamo in cammino (dal titolo “… da adulti”) senza lasciarsi assalire dal “complesso dell’ostrica”, così come ce lo presenta magistralmente Gianfranco Ravasi, commentandoci quest’immagine lasciataci da don Tonino Bello:
«Siamo troppo attaccati allo scoglio, alle nostre sicurezze, alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l’intimità del nido. Ci terrorizza l’idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci in mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno […]. Talora, infatti, entrando in certi gruppi o comunità, sembra quasi di avvertire subito un’aria viziata, una mancanza di respiro. Certo, l’ambiente asfittico ti rende meno agitato e teso, ti avvolge come un grembo protetto e ti fa cadere a terra in un apparente riposo. Ma è solo il risultato di un’assenza d’ossigeno spirituale, che rende inerti. È l’essere come immersi in uno stagno ove non si può nuotare e navigare. La vera spiritualità è, invece, ricerca e cammino, è fremito e attesa, è freschezza di vita e passione del cuore. Purtroppo, però, nell’itinerario dell’anima [e della Chiesa – aggiungo io), «appena trovata una piazzola libera, ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini, dei nostri comodi». E si spegne in noi l’ansia della pienezza e dell’infinito (G. RAVASI, «Il complesso dell’ostrica», in Avvenire, 11 agosto 2007].
Arcivescovo
(Professore di Pedagogia Generale e Sociale dell’Università di Verona)
(Diocesi di Otranto, Convegno diocesano, 20 settembre 2017)
- Dal libro, Senza adulti (Einaudi, 2016) del giurista Gustavo Zagrebelsky: la riduzione delle grandi età della vita da 3 (giovinezza, adultità, vecchiaia) a 2 (giovinezza e vecchiaia).
- La giovinezza è la sola età che vale e che è misura della vita umana, presente e futura, mente la seconda rappresenta il tracollo, la fine, la perdita irrimediabile della prima età.
- Si cerca in tutti i modi di vivere rimanendo “sempre giovani”, con il terrore di ritrovarsi da un momento all’altro “improvvisamente vecchi”, cioè nella “non vita”.
- Testimoniano la risucchio dell’età adulta in quella giovanile: quest’ultima diviene il punto di riferimento attorno al quale ruota l’altra; mentre dovrebbe essere il contrario.
- i comportamenti individuali (stili di vita, abbigliamenti, mode, linguaggio…);
- il modo di affrontare la vita (primato della reversibilità nelle scelte, la centratura sui propri bisogni e desideri; adulti senza profondità di riflessione e proiettati verso l’estemo);
- il modo di pensare i figli (come una proprietà) e di educarli (in modo iperprotettivo);
- Se scompare l’età adulta, quali le possibili conseguenze sociali (ed ecclesiali)
- La scomparsa anche delle altre età e del loro significato: “adultizzazione dei bambini” (cui corrisponde la “infantilizzazione degli adulti”).
- Anche l’età giovanile è destinata a implodere: se è fine a sé stessa, che senso ha?
- Se scompare l’età adulta, che ne è della vita della chiesa: è fatta solo di bambini (fino alla cresima) e di anziani?
- E se fossimo circondati da “ottimi adulti dalla pessima maturità”, come scrive Duccio Demetrio, In età adulta (Guerini e Associati, 2005, p. 39)? Ossia da uomini di successo, legato ai loro ruoli, ma incapaci di riflettere – da adulti – sulla propria vita e il suo significato?
- La vita adulta di fatto esiste, ma ha un suo “senso”? Ha una sua consistenza esistenziale e con essa un proprio ruolo, diverso da quello delle altre età, con dei compiti propri e da svolgere nel ciclo della vita umana?
- Se non avesse un senso significativo, perché mai i giovani dovrebbero desiderare di diventare adulti?
- Forse gli adulti hanno solo dimenticato che la loro vita ha un senso o non lo sanno cercare; in passato lo si imparava dalla tradizione, oggi non è più possibile. Ognuno lo deve trovare da sé, a partire dalla propria realtà e storia.
- La vita adulta ha un senso, diverso da quello delle altre età, però è da comprendere!
- Non si diventa adulti per il solo fatto di crescere in età. Occorre un lungo cammino, scandito da fasi, periodi e tempi differenziati.
- La prima grande difficoltà è capire di che cosa si parla, quando si parla degli “adulti”? Ogni adulto è diverso da un altro, perché ha la sua storia, le sue esperienze, il suo modo di pensare, di sentire e di agire.
- Per dare vita ad una riflessione si dovrebbero individuare degli elementi comuni; ma c’è realmente qualcosa in comune tra “tutti” gli adulti? Per capirlo occorre distinguere tra: ruoli, adultità, persona:
- i “ruoli” (ad es. quello di genitore), riguardano la dimensione relazionale e sociale dell’adulto, non la tua interezza, né possono essere vissuti da tutti;
- l’essere “persona” dice il valore ontologico della vita umana, ma è un significato che è proprio di ogni età, non solo di quella adulta. Lo stesso dicasi se si intende l’adulto come “figlio di Dio”;
- l’essere “adulto” indica un’età della vita, peraltro molto lunga. Si diventa adulti percorrendo il “cammino di adultità”, fatto di molti momenti, come ogni cammino.
- Per diventare adulto, occorre volerlo, ma ancor più occorre sentirne l’esigenza e accettare di diventarlo. Per questo può accadere che si diventi adulti di fatto, senza dapprima esserne consapevoli, mentre lo si diventa “dopo” esserlo già diventati. Si diventa così consapevoli:
- che è una delle età della vita che l’adulto sta vivendo, ed è parte della sua esistenza. E in rapporto alle altre età, in una successione di continuità e di differenziazione.
- Ogni fase della vita «costituisce una forma definita, ha un proprio senso e non può essere sostituita da nessun’altra» (R. Guardini, Le età della vita, Vita pensiero, 1986).
- Diventare adulti è impegnativo e faticoso, perché lo si diventa nel tempo, gradualmente, e ad un livello di profondità sempre più profondo. Spesso lo si diventa perché “provocati” dalla realtà, non per nostra iniziativa diretta.
- Si diventa adulti dapprima a livello biologico, attraverso la crescita fisica e la maturazione sessuale. Il corpo raggiunge con largo anticipo uno stadio di sviluppo adulto, anche se le altre componenti costitutive dell’età sono ancora assenti o allo stato germinale.
- Si diventa adulti, in secondo luogo, a livello giuridico, con il raggiungimento della maggiore età, a cui segue l’insieme di diritti e doveri da assumere e da rispettare.
- In terzo luogo, si diventa adulti a livello sociale, quando si assumono ruoli socialmente rilevanti, come quelli familiari e professionali, ecc. Si diventa adulti non solo in virtù di sé stessi, ma anche in relazione agli altri.
- Infine, si diventa adulti a livello psicologico, quando si è in grado di pensare ed agire in modo autonomo e responsabile; a questo livello, si mostra un certo grado di stabilità personale, di buon senso, di coerenza e di attendibilità di comportamento.
- Questi sono gli elementi ai quali solitamente si pensa, quando si riflette sul diventare adulti; ma riguardano di fatto gli elementi dell’adultità psico-sociale, propri del processo di adattamento al contesto in cui si vive, che caratterizza l’identità collettiva, riconosciuta dalla comunità di appartenenza.
- Mentre si è impegnati a diventare adulti esteriormente, accade che all’interno di sé si vivano altre esperienze, che si intrecciano con quelle esterne e che ne scandiscono il cammino.
- L’esperienza delle grandi “scelte” sono quasi sempre presenti all’inizio o alla fine di determinati periodi, di stabilità o di cambiamento della propria vita;
- L’esperienza dei “passaggi di vita” sono momenti particolari, vissuti con un senso doloroso di smarrimento, perdita, paura, ma che diventano poi la premessa per un nuovo stato di cose e nuova consapevolezza di sé.
- L’esperienza del “cambiamento” nel corso del tempo: è l’esperienza di come si cambia nel tempo e di come, guardando indietro, si prenda coscienza di ciò allora non si sapeva.
- L’esperienza della presenza di “due età della vita” (puer e senex), della necessità della loro sintesi, quando a metà della vita appare il senex e con esso la consapevolezza che quanto appare vero al mattino della vita, può apparire falso nel pomeriggio della vita (C. G. Jung).
- Vi è un terzo livello dell’esperienza conoscitiva e riflessiva, ancora più interno che pone l’adulto nelle condizioni di comprendere e interpretare la vita che sta vivendo – e con essa la vita in generale – attribuendo ad essa un significato globale.
- Il processo di “identificazione”, seguito da un processo di “distacco” e dall’alternativa tra una crisi senza sbocco o “rientrare in sé stesso”. Alcune sue espressioni esperienziali:
- Le “fasi apicali” di Demetrio e la loro logica permanente e ricorrente: vita (ricerca di conformità); lavoro (mancanza di sincronia); sofferenza e morte (presa di distanza); rinascita (reintegrazione).
- L’esperienza del “disincanto” di Guardini, e la decisione di continuare a vivere secondo i valori, nonostante la consapevolezza della miseria della vita.
- Il duplice dinamismo della vita interiore, alla ricerca del proprio “centro di unità”:
- il dinamismo dall’esterno verso l’interno: dall’esperienza materiale alla verifica del suo significato “per me”, riportandolo all’intemo di sé;
- il dinamismo dall’interno verso l’esterno: dal significato “per me” al desiderio della sua realizzazione nella realtà, attraverso l’azione.
- La dilatazione della visione del proprio mondo: i due volti (interiore ed esteriore) della propria realtà.
- La “generatività” come segno esistenziale della propria fecondità del dinamismo interiore.
- La scoperta della dimensione “simbolica” della conoscenza, via di accesso all’esperienza di trascendenza, attraverso:
- l’esperienza spirituale; 1’esperienza religiosa;
- l’esperienza educativa.
Relazione del convegno pastorale diocesano del 21 settembre 2017
(Enzo Biemmi)
«A poco servirebbe, in ordine alla fecondità degli itinerari di iniziazione cristiana, se a partire dai 6-7 anni di età i percorsi di gruppo dei bambini e dei ragazzi fossero interamente delegati ai catechisti, lasciando sullo sfondo il possibile apporto dei genitori e il contesto offerto dalla stessa vita comunitaria […]. L’accompagnamento dei genitori non potrà che continuare, evolvendosi nelle forme e negli stessi obiettivi […] In concreto, si tratta non solo di fissare veri e propri itinerari di catechesi per i genitori, ma anche e soprattutto di responsabilizzarli a partire dalla loro domanda dei Sacramenti» (Incontriamo Gesù, n. 60).
Gli Orientamenti CEI Incontriamo Gesù recepiscono e rilanciano questa convinzione. Questa consapevolezza non riguarda solo le comunità cristiane che hanno rinnovato l’impianto di IC, ad esempio secondo il modello catecumenale o quello dei quattro tempi (per citare i due più diffusi in Italia), ma anche tutte le parrocchie (e sono la maggioranza) che continuano con il modello consueto. Non c’è catechista che non si renda conto che la posta in gioco sono i genitori e non c’è comunità che non provi a mettere in atto qualche iniziativa, anche modesta, in questa direzione. Modello rinnovato o modello consueto poco importa: importa coinvolgere i genitori.
L’annuncio del vangelo ai genitori dei ragazzi che si preparano a ricevere i sacramenti dell’iniziazione non è che un aspetto della difficoltà che stiamo sperimentando riguardo all’iniziazione cristiana. Ma è un aspetto decisivo, se vogliamo veramente incamminarci verso una conversione missionaria.
– Le comunità che hanno rinnovato l’impianto di IC hanno particolarmente puntato su questa scelta. Dopo una quindicina di anni di sperimentazione queste proposte costituiscono quindi anche un interessante punto di osservazione per capire che cosa sta veramente accadendo, che problemi stiamo affrontando nel coinvolgimento degli adulti, quali aspettative e quali obiettivi ci possiamo dare e quali no.
Sviluppo il mio breve intervento in tre passaggi, i più ovvi e mi pare i più necessari: la realtà dei genitori; quale annuncio siamo chiamati a fare; come lo possiamo fare concretamente.
Quel giorno ha segnato per me una conversione. Mi sono dato il permesso di cambiare totalmente prospettiva. Mi sono impegnato a scrivere, quasi come riparazione, “l’elogio della Sacra Famiglia al rovescio”, facendo vedere come la famiglia di Nazareth non è una famiglia ideale, è piena di problemi, non è imitabile. I vangeli dell’infanzia non propongono un modello da imitare, ma annunciano una buona notizia: che all’interno di ogni famiglia, qualunque essa sia, ormai c’è la presenza dell’Emmanuele, il Dio con noi, che custodisce ogni legame e diviene motivo di speranza per tutte le famiglie, qualunque sia la loro situazione.
Vale la pena leggere come entrata tutto il n. 325 di AL.
Queste tre semplici considerazioni, per altro non esaustive, ci rendono attenti a come affrontiamo tutta la questione della proposta di fede ai genitori.
È uno sguardo realistico, che può apparire persino disincantato, che non ci porta certo a rimangiarci le convinzioni con le quali ho aperto questo mio intervento, vale a dire che è indispensabile uscire da una catechesi di IC puerocentrica e spostare l’asse sugli adulti. Ma ci educa a calibrare gli obiettivi, a non farci delle attese sproporzionate che portano a mettere sulle spalle delle persone dei pesi che non siamo in grado di portare neppure noi e creare le premesse per non poche delusioni pastorali. Occorre dunque avere i piedi per terra e fare i passi possibili (papa Francesco).
Il kerigma è quello che papa Francesco riassume con una semplicità disarmante:
«Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”». (Evangelii gaudium, 164).
– la sorpresa di un volto di Dio che non si aspettano , un Dio a favore dell’uomo, che si appassiona e ha compassione di8 loro (la misericordia)
Qui c’è la prima domanda: quale esperienza di comunità viviamo nelle nostre parrocchie e proponiamo ai genitori?
I genitori non arrivano solo con un’idea precostituita di chiesa, ma anche di fede. Per loro la fede è fondamentalmente una questione di dottrine, di riti e di comportamenti morali riassunti dai comandamenti. Si trovano invece di fronte a una proposta che si configura come accompagnamento dell’esperienza che stanno vivendo (come adulti e come genitori), fatta con il linguaggio della vita ordinaria. Qualunque cosa si dice a loro è un aiuto a leggere in profondità quello che stanno vivendo. Questa proposta necessariamente dà un grande spazio ai racconti di vita delle persone stesse. Ci si mette in ascolto delle proprie storie. Sono dunque percorsi autobiografici e narrativi. Questo porta progressivamente a intuire prima e poi ad esplicitare che la propria vita è abitata dalla presenza di Qualcuno che la custodisce, la promuove, la protegge, la rimette in cammino. È una storia della salvezza in corso, anche se non ne eravamo consapevoli. Le persone possono allora arrivare a dire: “Dio era qui e io non lo sapevo”.
E qui c’è la seconda domanda: quale figura di fede stiamo vivendo e proponendo ai genitori?
Qui c’è per noi la terza domanda: quale è lo stile delle nostre persone, quando incontriamo i genitori? È quello della pretesa, o della testimonianza gratuita e disarmata? Infatti, abbiamo alle spalle una lunga tradizione dell’obbligo, che in una cultura della libertà non ha più futuro.
c) Alcune pratiche hanno imparato a valorizzare maggiormente, in funzione di un cammino catecumenale, le esperienze che la comunità già vive e mette in atto, come ad esempio celebrazioni, giornate di incontro e di festa, iniziative di carità, campi scuola, attività di oratorio, ecc., senza dover per forza inventare da capo delle iniziative specifiche per il percorso di IC, evitando così di procedere per accumulo di proposte.
Ecco dunque una terza cosa che sta crescendo: la qualità della proposta nel giorno del Signore, come tempo di incontro delle famiglie. Non è priva di difficoltà, ma riavvia un nucleo di comunità viva, generativo.
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